venerdì 30 maggio 2025

Corso di storia della filosofia: Rorty 1931

 

Richard Rorty (1931–2007)

Il filosofo che trasformò la verità in una pratica di conversazione

Immagina la filosofia come una grande sala da pranzo. Per secoli molti pensatori hanno cercato “la ricetta perfetta” — la Verità con la V maiuscola — capace di valere sempre e per chiunque. Richard Rorty entra in quella sala, si siede, ascolta, e poi propone un cambio di menu: smettiamo di cercare la ricetta definitiva e impariamo, invece, a cucinare meglio insieme. La filosofia, dice, non deve essere il giudice supremo che misura tutto, ma una forma di conversazione creativa che aiuta le persone a capirsi e a vivere con più giustizia.

Una vita tra scuole diverse

Rorty nasce a New York nel 1931, in una famiglia di intellettuali progressisti. Studia prestissimo (entra all’università da giovanissimo), si forma nella tradizione analitica americana, poi insegna a lungo a Princeton. Negli anni Ottanta si sposta verso le humanities a Virginia e quindi a Stanford, segno visibile della sua “traversata”: da specialista del linguaggio e della logica a pensatore pubblico che dialoga con letteratura, politica e cultura. Non cambia mestiere: allarga l’officina.

La svolta: addio “specchio della natura”

La tesi centrale che lo rende famoso è un addio. Rorty saluta l’idea che la conoscenza sia uno “specchio” che riflette la realtà così com’è. Non esiste un punto d’osservazione neutro fuori dal linguaggio, fuori dalla storia, fuori dalle pratiche umane. Esistono, invece, usi del linguaggio più o meno utili a risolvere problemi, a coordinare azioni, a ridurre la sofferenza.

Per dirla semplice: non ci sono “fondamenta” ultime su cui costruire tutto (questo è il suo anti-fondazionalismo). Ci sono strumenti che funzionano meglio o peggio in contesti concreti. La filosofia, allora, somiglia meno all’architettura di un palazzo perfetto e più a una cassetta degli attrezzi.

Da “verità” a “solidarietà”

Quando chiediamo “che cos’è vero?”, Rorty sposta l’attenzione da un cielo di idee eterne alla pratica di una comunità che decide cosa accettare come buone ragioni. Non propone cinismo né “tutto è uguale”: propone una responsabilità linguistica. Una tesi è “vera” se regge nella prova degli scambi argomentativi tra pari, se aiuta a prevedere, curare, cooperare, includere. La posta in gioco non è un certificato metafisico, ma la vita che ci costruiamo insieme.

Da qui il suo motto politico: meno ossessioni sull’“oggettività ultima”, più impegno per allargare la cerchia della solidarietà. Non dobbiamo scoprire un’essenza comune nascosta in tutti; dobbiamo raccontarci storie migliori per riconoscere gli altri come simili a noi, degni di rispetto e protezione.

Il lessico che ci fa (e ci disfa)

Rorty ama parole come contingenza e redescription (ri-descrizione). “Contingente” significa: avrebbe potuto andare diversamente. Anche il nostro vocabolario finale — quell’insieme di parole con cui, alla fine, giustifichiamo noi stessi (“libertà”, “dignità”, “progresso”, “sacro”, “scientifico”) — non è scolpito nella roccia. È il risultato di storie, incontri, traumi, letture. Cambiando il modo di parlare, cambiamo noi stessi.

Esempio. Pensa alla parola “malattia mentale” rispetto a “sofferenza psichica”. La prima può spingere verso protocolli medici e istituzioni; la seconda apre più spazio a narrazioni personali e diritti. Nessuna delle due cattura “l’essenza” una volta per tutte; ciascuna orienta azioni diverse. Per Rorty, il lavoro etico e politico è spesso un lavoro di riconio del vocabolario.

Il “liberale ironico”

In Contingenza, ironia e solidarietà Rorty disegna il profilo del liberale ironico:

  • Liberale, perché mette al centro la riduzione della crudeltà, la protezione dei deboli, lo Stato di diritto.
  • Ironico, perché sa che anche i suoi ideali sono storici e rivedibili; non pretende di possedere la lingua definitiva del Bene.

Questa combinazione non porta al relativismo indifferente; porta a un’etica della cura e della prudenza: difendo con forza i diritti, ma senza trasformare le mie parole in idoli. Combatto per la libertà di stampa non perché “lo dice la Natura”, ma perché la storia mostra che dove si può parlare, si soffre meno e si correggono meglio gli errori.

Scienza senza pedestallo (ma senza disprezzo)

Rorty non sminuisce la scienza: ne ammira la capacità di risolvere problemi e di coordinare pratiche complesse. Semplicemente le toglie il pedestallo metafisico. Gli scienziati non possiedono una finestra privilegiata sull’essere; possiedono metodi efficaci per fare cose affidabili nel mondo. Questo basta — ed è già moltissimo.

Esempio. Dire che l’elettrone è “reale” non aggiunge nulla di pratico al linguaggio della fisica che ci permette di costruire circuiti, risonanze magnetiche, satelliti. Quel linguaggio funziona: per Rorty è il suo vero titolo di nobiltà.

Che cosa chiedere alla filosofia

Rorty distingue tra due stili:

Lui sceglie la seconda. Non perché l’ordine sia inutile, ma perché, dice, nelle epoche di cambiamento abbiamo più bisogno di immaginazione che di dogmi.

Le obiezioni (e le sue risposte)

  • “Se la verità è solo ciò che accettiamo in conversazione, allora vale tutto.”
    Rorty risponde: non vale tutto, valgono gli esiti nei contesti. Conversazioni ben regolamentate (tribunali, riviste scientifiche, parlamenti, movimenti civili) producono criteri esigenti; altre conversazioni, meno. Il punto è costruire istituzioni che rendano le conversazioni più inclusive e meno crudeli.
  • “Senza fondamenti, come difendo i diritti?”
    Con storie e pratiche che mostrano perché è meglio per tutti vivere in società meno crudeli. Non c’è garanzia eterna; c’è lavoro politico continuo.
  • “Non è tutto linguaggio? E il mondo?”
    Il mondo c’è, eccome; ma lo incontriamo attraverso descrizioni. Cambiare descrizione non crea o distrugge montagne, ma cambia ciò che possiamo fare con esse (minarle, proteggerle, sacralizzarle, calcolarne i rischi).

Un’idea politica semplice (e impegnativa)

In politica Rorty resta un riformista di sinistra. Invita la cultura progressista a parlare in modo persuasivo a chi lavora, a chi sta ai margini, evitando toni di superiorità. Quando le élite smettono di offrire speranze concrete (salari, scuole, sanità, dignità del lavoro), si apre la strada ai demagoghi. La soluzione non è “avere l’argomento ultimo”, ma ricostruire fiducia attraverso linguaggi, progetti e istituzioni che mantengano promesse.

Perché leggere Rorty oggi

Una piccola guida all’uso

  1. In classe o in azienda: quando si litiga su “cos’è davvero la meritocrazia”, provate a riscriverne il vocabolario in tre versioni: giuridica, narrativa (storie di persone), gestionale (processi, incentivi). Noterete che cambiano criteri e decisioni: ecco Rorty in azione.
  2. Nel dibattito pubblico: invece di chiedere “chi ha la Verità?”, chiediamo “quale linguaggio permette a più persone di stare meglio senza escludere nessuno?”. È una domanda meno brillante in astratto, ma più utile.
  3. Nella vita personale: quando un’etichetta ti schiaccia (“fallito”, “inadatto”), prova una ri-descrizione: “sto attraversando una fase difficile” apre altri gesti, altre richieste di aiuto, altre possibilità.

Libri per iniziare (in ordine amichevole)


Richard Rorty ci lascia un’eredità sobria e coraggiosa: meno ansia di fondare, più cura nel conversare. Non promette un’ultima parola; ci invita a cercare parole migliori, quelle che — qui e ora — aiutano più persone a vivere una vita decente. E questo, per lui, è già un risultato filosofico all’altezza delle grandi ambizioni umane.


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