martedì 29 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 91 bis Gadamer 1900

Hans-Georg Gadamer 1900

filosofo


Hans-Georg Gadamer (Marburgo, 11 febbraio 1900 – Heidelberg, 13 marzo 2002) è stato un filosofo tedesco, considerato uno dei maggiori esponenti dell'ermeneutica filosofica grazie alla sua opera più significativa, Verità e metodo (Wahrheit und Methode, 1960). È stato allievo di Paul Natorp e Martin Heidegger.
Il nucleo fondamentale della ricerca filosofica di Gadamer si muove sul terreno dell'ermeneutica. La parola "ermeneutica" è di etimo greco e rinvia alla hermeneutiké téchne [ρμηνευτική τέχνη], termine che allude a una costellazione di significati legati all'attività del tradurre, dell'interpretare, e che a sua volta deriva da hermeneúo [ρμηνεύω], verbo che riecheggia Hermes – il nunzio degli dèi.
In passato l'ermeneutica era una dottrina tecnica che si occupava dell'interpretazione dei testi sacri o delle leggi. Intesa nel senso disciplinare del termine, l'ermeneutica è un prodotto essenzialmente moderno. È in quest'epoca che Friedrich Schleiermacher apre la strada a quella che stava per diventare una disciplina filosofica vera e propria. Il problema posto dall'autore era di vedere quali fossero le condizioni preliminari del comprendere, per mezzo delle quali gli interpreti avrebbero potuto evitare ogni fraintendimento durante la ricostruzione (Hineinversetzung, letteralmente: trasferimento interno) dell'opera.
In questo senso, il compito dell'interprete consisteva non solo nel catturare le intenzioni esplicite dell'autore originario, ma di esplicitare la traccia del "non-detto" sotteso a ogni intento consapevole. Ma se per Schleiermacher il circolo ermeneutico era concluso grazie a un trasferimento empatico, per Wilhelm Dilthey, epistemologo delle scienze dello spirito, rimane un compito mai concluso né mai pacificato. Tuttavia, Dilthey riteneva ancora che la comprensione dovesse raggiungere la medesima oggettività propria delle scienze della natura.
In evidente opposizione alla pretesa di monopolio rivendicata dalla metodologia delle scienze empiriche, Martin Heidegger rappresenta un punto di svolta per la storia dell'ermeneutica. Egli prese a occuparsi del problema dell'ermeneutica per sviluppare, con intenti non più epistemologici ma ontologici, la struttura della precomprensione. Secondo Heidegger, infatti, il comprendere rappresenta un modo di essere dell'Esserci (Dasein), la cui esistenza è influenzata da una comprensione preliminare del mondo.
A partire da questo assunto, Gadamer giunge a interrogarsi sulle modalità del comprendere ermeneutico. Per Gadamer, non è possibile tornare indietro rivivendo il passato in modo oggettivo, poiché l'esistenza presente è influenzata da una serie di conoscenze stratificate che anch'egli chiama "pre-comprensioni" (Vorverständnisse) o, più semplicemente, "pregiudizi". Ora, sostiene Gadamer, quando ciascuno emette un giudizio è influenzato dalla propria visione del mondo (Weltansicht), che tuttavia non costituisce un inconveniente, bensì una condizione fondamentale del processo cognitivo.
È per questa ragione che egli può affermare che: "Di per sé, pregiudizio significa solo un giudizio che viene pronunciato prima di un esame completo e definitivo di tutti gli elementi obiettivamente rilevanti". Secondo questo punto di vista, il pregiudizio non va eliminato, ma abitato con una certa phrónesis ("saggezza", o meglio ancora "prudenza", termine che richiama il latino pro-videre ovvero la capacità di "guardarsi [se videre] intorno [pro]"), concetto che Gadamer recupera esplicitamente da Aristotele: "L'interprete", prosegue Gadamer, "non può proporsi di prescindere da sé stesso e dalla concreta situazione ermeneutica nella quale si trova". È così che si viene a configurare il "circolo ermeneutico". Ogni interpretazione è infatti influenzata dai nostri pregiudizi storici, nel senso che le nostre conoscenze che caratterizzano la comprensione del presente sono determinate da una continua stratificazione di nozioni che si formano grazie al costante dialogo tra l'opera e i suoi interpreti. Tale circostanza trova un'illustrazione nell'importante, e talvolta frainteso, concetto di "fusione degli orizzonti" (Horizontverschmelzung), il processo che porta il fruitore del testo all'interno del circolo ermeneutico, in cui si fondono due orizzonti: quello dell'interprete, formatosi entro la tradizione e la precomprensione del presente, e quello del testo, che porta con sé l'insieme di tutte le interpretazioni e tradizioni che ha vissuto.

giovedì 24 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 108 Marcuse 1898

Herbert Marcuse 1898



Herbert Marcuse (1898 – 1979) è stato un filosofo e scrittore. Nel 1922 consegue il dottorato a Berlino con una tesi sul romanzo d'artista tedesco ed inizia a lavorare alla sua abilitazione sotto Martin Heidegger a Friburgo, ma a causa del regime nazista emigra negli Stati Uniti nel 1934. La cosiddetta Scuola di Francoforte, formata da lui Max Horkheimer e Theodor Adorno, nasce negli anni seguenti a New York, dove Marcuse viene assunto dall'Istituto per la Ricerca Sociale, che pure si era trasferito a New York. Accetta nel 1942 di lavorare a Washington presso l' Office of Strategic Services (OSS, precursore della CIA) analizzando le informazioni riguardo alla Germania. Successivamente lavora agli Russian Institutes della Columbia University (New York) e di Harvard, quindi alla Brandeis University ed alla University of San Diego in California. Le sue critiche al capitalismo (espresse in Eros e civiltà del 1955 in cui formula l’idea di una società liberata, non repressiva, e L’uomo ad una dimensione del 1967 dove emerge il pessimismo secondo cui nella società cosiddetta democratica emerge un totalitarismo mascherato che riduce la vita dell'individuo al solo bisogno di produrre e consumare), con l'inizio del movimento studentesco, lo fanno divenire uno dei suoi principali interpreti.


mercoledì 23 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 107 Horkheimer 1895

Max Horkheimer 1895 

Max Horkheimer (1895 – 1973) di origine ebrea è stato un filosofo tedesco, tra i più importanti esponenti della Scuola di Francoforte. Studia all'università di Monaco, e di Francoforte dove incontra Theodor Adorno con il quale instaurerà una lunga e produttiva amicizia. Si laurea con una tesi su La Critica del Giudizio di Kant come mediazione tra filosofia pratica e teoretica, e comincia ad insegnare nello stesso ateneo nella cattedra di filosofia sociale. Assume la direzione dell'Istituto per la Ricerca Sociale ed è a capo della redazione che sarà organo ufficiale della cosiddetta Scuola di Francoforte. Nel 1933, con l'inasprirsi delle politiche censorie, fugge negli Stati Uniti, dove ottiene la cittadinanza americana ed insegna alla Columbia University,. Dopo la guerra ritorna in Germania e diviene Rettore dell'Università di Francoforte. Insegna infine nell'Università di Chicago.
 Sviluppa il suo pensiero nei saggi Dialettica dell'illuminismo (scritto insieme ad Adorno) e Eclisse della ragione (entrambi 1947), una critica globale della moderna civiltà occidentale e della logica del dominio che egli identifica come base di ogni sua manifestazione sociale, economica e culturale. Inizialmente questa analisi critica porta Horkheimer ad aderire al marxismo, ma subito se ne allontana riconoscendo nell'ideale rivoluzionario del padroneggiamento della natura e della società solo un'altra espressione della logica alla base della civiltà industriale.

Corso di storia della filosofia: 101 quater Gramsci 1891

Antonio Gramsci 1891

Antonio Gramsci: il prigioniero delle idee

Nato ad Ales, un piccolo paese dell’entroterra sardo, il 22 gennaio 1891, Antonio Gramsci vide la luce in una terra aspra, segnata dalla povertà e dalla fatica quotidiana dei contadini. Fin da bambino dovette affrontare le difficoltà della vita: una malformazione alla colonna vertebrale lo rese fragile fisicamente, ma non riuscì mai a piegare la sua volontà di comprendere e cambiare il mondo.

In gioventù si avvicinò alle idee autonomiste sarde, ma fu l’università di Torino, che iniziò a frequentare nel 1911, a trasformare per sempre il suo orizzonte intellettuale. Nella capitale industriale d’Italia, Gramsci entrò in contatto con le lotte operaie, respirò l’aria densa di dibattiti politici e scoprì nel socialismo rivoluzionario una chiave per interpretare le ingiustizie che vedeva intorno a sé.

Si iscrisse al Partito Socialista Italiano nel 1913 e cominciò a collaborare con giornali come Il Grido del Popolo e l’Avanti!, distinguendosi per la lucidità e la profondità delle sue analisi. Nel maggio 1919 fondò insieme ad altri militanti L’Ordine Nuovo, un settimanale che divenne il punto di riferimento per il movimento dei consigli di fabbrica, organismi autogestiti dagli operai. Le sue posizioni, in sintonia con quelle di Lenin, spingevano il socialismo italiano verso un legame diretto con l’Internazionale comunista.

Quando nel 1921 nacque il Partito Comunista d’Italia, Gramsci fu tra i protagonisti della scissione dal PSI. Entrò nel comitato centrale e, dopo un periodo a Mosca tra il 1922 e il 1923, divenne una figura di primo piano nell’Internazionale comunista. Tornato in Italia nel 1924, in un contesto di crescente repressione fascista, fondò il quotidiano l’Unità e venne eletto deputato. Da segretario del PCd’I, impostò una strategia innovativa: unire gli operai del Nord e le masse contadine del Mezzogiorno, affrontando la cosiddetta "questione meridionale" e cercando un’alleanza con i socialisti massimalisti.

La sua attività non passò inosservata al regime. Nel novembre 1926 fu arrestato e, nel 1928, condannato a 20 anni di carcere dal Tribunale speciale fascista. Il pubblico ministero pronunciò una frase rimasta nella memoria: "Bisogna impedire a questo cervello di funzionare per vent’anni".

Ma il carcere, invece di spegnere la sua intelligenza, la trasformò in un laboratorio di pensiero. Nonostante la salute sempre più fragile, Gramsci riempì pagine e pagine dei suoi Quaderni del carcere, riflettendo su storia, politica, filosofia, letteratura. È qui che elaborò i suoi concetti più celebri:

  • Egemonia, il potere non solo come dominio coercitivo, ma come capacità di conquistare il consenso culturale e morale.
  • Rivoluzione passiva, i cambiamenti politici e sociali che avvengono senza una reale partecipazione popolare.
  • Il passaggio dalla guerra di movimento (l’assalto diretto al potere) alla guerra di posizione (lento radicamento culturale e sociale prima della conquista politica).

Gramsci criticò apertamente lo stalinismo, opponendosi a ogni forma di potere repressivo e immaginando una società in cui l’educazione e la cultura fossero strumenti di emancipazione collettiva. Le sue riflessioni sul Risorgimento italiano, sulla figura di Machiavelli, sugli intellettuali e sull’"americanismo" mostrano una capacità rara di intrecciare storia e politica con una visione globale.

Le sue condizioni di salute peggiorarono a tal punto che, nel 1934, fu trasferito in una clinica di Formia. Morì a Roma il 27 aprile 1937, pochi giorni dopo aver ottenuto la libertà condizionata.

Oggi, le Lettere dal carcere e i Quaderni del carcere restano tra le opere più influenti della cultura politica del Novecento. Antonio Gramsci, prigioniero del corpo ma libero nello spirito, continua a parlarci di un’idea di politica come responsabilità culturale, di rivoluzione come costruzione di coscienza collettiva, di libertà come conquista quotidiana.



martedì 22 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 101 Carnap 1891

 Rudolf Carnap 1891

 Carnap

Immagina di voler capire come funziona il mondo, ma senza perderti in parole complicate o idee confuse. Questo era l’obiettivo di Rudolf Carnap (1891–1970), un filosofo tedesco che amava la logica e la scienza, e che poi visse negli Stati Uniti.

Carnap faceva parte di un gruppo di studiosi molto speciali chiamato Circolo di Vienna: una squadra di amici che cercava di spiegare tutto con il linguaggio più chiaro e preciso possibile, usando la matematica e la scienza.

Fin da giovane, Rudolf studiò con grandi maestri: imparò filosofia, la scienza della logica con chi per primo l’aveva inventata, e persino fisica da uno dei più grandi scienziati di sempre, Albert Einstein! E fece amicizia con filosofi famosi come Bertrand Russell e Edmund Husserl.

Nel 1928 scrisse un libro molto importante, La costituzione logica del mondo, dove provava a spiegare che tutte le nostre idee e la scienza possono partire dalle cose che vediamo o sentiamo dentro di noi, cioè dalla nostra esperienza.

Qualche anno dopo, nel 1934, scrisse un altro libro, Sintassi logica del linguaggio, in cui diceva una cosa rivoluzionaria: non esiste un modo “giusto” o “sbagliato” per parlare o usare la logica, ognuno può scegliere il linguaggio che preferisce, purché sia utile per i suoi scopi.

Quando si trasferì negli Stati Uniti, iniziò a insegnare in grandi università e si dedicò a studiare come funzionano il significato delle parole (la semantica) e come possiamo pensare a tutte le possibilità diverse che potrebbero accadere (la logica modale, che parla di “mondi possibili”).

Inoltre, lavorò a come possiamo capire e prevedere il futuro basandoci su indizi e probabilità, cercando di distinguere tra affermazioni vere per definizione (analitiche) e quelle che si scoprono solo sperimentando (sintetiche).

In poche parole, Carnap voleva che la filosofia fosse chiara, vicina alla scienza e utile a capire davvero come gira il mondo, senza perdere tempo in chiacchiere inutili.



lunedì 21 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 89 Heidegger 1889

Martin Heidegger 1889

HeideggerMartin. - Filosofo tedesco (Messkirch, Baden, 1889 - ivi 1976). Compì gli studi universitari a Friburgo in Brisgovia, dove conseguì la laurea in filosofia nel 1913 con una tesi su Die Lehre vom Urteil in Psychologismus, pubblicata nel 1914, e la libera docenza con H. Rickert nel 1916 con lo scritto su Die Kategorien- und Bedeutungslehre des Duns Scotus, pubblicato nello stesso anno. Esercitò la libera docenza all'univ. di Friburgo dal 1915 al 1923 e fu assistente di Husserl, che era succeduto a Rickert nel 1916. Nel 1923 fu chiamato come professore straordinario all'univ. di Marburgo. Nel 1927 pubblicò Sein und Zeit, sicuramente la sua opera più importante. Nel 1928 tornò all'università di Friburgo quale successore di E. Husserl e come professore ordinario, e nel 1929 pubblicò la prolusione Was ist Metaphysik?; nello stesso anno comparvero Kant und das Problem der Metaphysik e lo scritto Vom Wesen des Grundes. Nel 1933 fu eletto rettore dell'università di Friburgo, e aderì al nazionalsocialismo pronunciando la prolusione dal titolo Die Selbstbehauptung der deutschen Universität. Ma già nell'anno seguente si dimise da rettore e si distaccò completamente dalla vita politica dedicandosi esclusivamente all'insegnamento. Di questo periodo è la conferenza romana del 1936 su Hölderlin und das Wesen der Dichtung, pubblicata nel 1937, a cui seguirono nel 1942 il saggio su Platons Lehre von der Wahrheit, nel 1943 Vom Wesen der Wahrheit e infine, nel 1944Erläuterungen zu Hölderlins Dichtung. Dal 1945 al 1951 gli fu vietato l'insegnamento dalle potenze occupanti e di questo periodo è l'importante Brief über den Humanismus (1946), dove prende le distanze dalle interpretazioni esistenzialistiche del suo pensiero e annuncia la "svolta" del pensiero in direzione del linguaggio come "dimora dell'essere"; molto importante pure la raccolta di saggi Holzwege (1950), in particolare per la concezione dell'arte come intrinseco accadere della verità e, quindi, per una concezione della verità diversa tanto dai modelli formali e scientificizzanti quanto dalle concezioni proprie delle forme correnti di storicismo. Nel 1951 H. poté riprendere l'attività di docente (dal 1952 come professore emerito) tenendo corsi e seminarî all'univ. di Friburgo e pubblicò una nutrita serie di scritti: nel 1953, l'Einführung in die Metaphysik, che riproduce il testo di lezioni tenute nel 1935; nel 1954Vorträge und Aufsätze e Was heisst Denken?; nel 1956Zur Seinsfrage; nel 1957Der Satz vom Grund e Identität und Differenz; nel 1959Unterwegs zur Sprache, l'opera forse più importante per le interpretazioni ermeneutiche della filosofia heideggeriana; nel 1961Nietzsche, due importanti volumi che riprendono corsi universitari degli anni Trenta e Quaranta e che hanno avuto un ruolo determinante soprattutto in Francia e in Italia per la ripresa del problema del nichilismo in rapporto agli sviluppi della metafisica e della tecnica come "destino" dell'Occidente; nel 1962Die Frage nach dem Ding e nel 1963Kants These über das Sein; nel 1970Phänomenologie und Theologie e nel 1971Schellings Abhandlung vom Wesen der Freiheit, dove sono riprese le lezioni del 1936 sullo stesso tema. Dal 1975 è in corso l'edizione completa delle opere di Heidegger. La straordinaria risonanza avuta da Sein und Zeit può apparire a prima vista sorprendente soprattutto se si pensa a quello che è propriamente il suo tema: riprendere quel problema della molteplicità dei sensi dell'essere che era già stato avvertito e impostato da Aristotele e dal pensiero greco, e che poi era stato sempre più relegato, in quanto "metafisica", nell'oblio o nell'insignificanza. Tuttavia la peculiarità di quest'opera e il fatto che, anche contro le intenzioni del suo autore, sia stata intesa come un manifesto della filosofia dell'esistenza si spiegano in quanto la ripresa del problema dell'essere passa necessariamente attraverso lo studio di quell'ente che è l'uomo o, come H. preferisce dire, l'"esserci" (Dasein). L'"esserci" infatti non è un ente che si trova soltanto in mezzo agli altri come una cosa, ma è sempre caratterizzato da un rapporto di "comprensione" preliminare dell'essere degli enti con i quali si trova in rapporto e del proprio essere; così pure l'"esserci" è un ente che, a differenza degli altri, ha come propria dimensione la capacità di interrogarsi sull'essere, di tematizzare esplicitamente il problema del senso dell'essere. L'ontologia quindi deve necessariamente prendere le mosse dall'"analitica esistenziale", ossia dallo studio dei modi in cui l'"esserci" si rapporta all'essere, "esiste" (questo è il senso specifico che H. attribuisce alla parola "esistenza" per indicare l'essenza dell'"esserci", a differenza dell'uso tradizionale che vedeva nell'esistenza la semplice realizzazione, attualità di essenze a essa presupposte); infatti non solo non è possibile attingere altrimenti o in forma diretta l'essere, ma ogni comprensione dell'essere è già sempre collegata al modo in cui l'"esserci" è costitutivamente disposto verso il mondo e verso gli altri. Perciò a differenza della tradizione, dove spesso la metafisica è intesa come sforzo di trascendere la finitezza, per H. metafisica e finitezza sono inscindibili, poiché l'interrogazione sull'essere avviene sempre necessariamente all'interno di un "esserci" che è un "progetto gettato", ossia di un ente che si trova sempre nel mondo come rinviato a degli altri enti e perciò stesso è finito. L'importante però è cogliere il senso della traiettoria che l'interrogazione sull'essere descrive all'interno della finitezza, poiché l'"esserci" si trova inizialmente "gettato" nel mondo in condizioni di "deiezione", ossia in un rapporto di dispersione e di impersonalità, quel rapporto che è ben espresso dall'uso corrente di nozioni come "si dice", "si fa", ecc. Dallo stato di deiezione in cui l'essere è celato a sé stesso, l'"esserci" viene fuori attraverso l'angoscia che non è il timore di questa o quella cosa determinata, bensì il senso della nullità totale e fondamentale dell'essere del mondo; è l'angoscia dunque che dischiude all'"esserci" il vero senso del suo rapportarsi agli enti prendendone "cura" e, viceversa, la cura non è un rapporto agli enti puramente teoretico o puramente pratico, bensì qualcosa di più originario e fondamentale, quale anticipazione del possibile esito di tale rapporto, un esser-già-sempre-avanti-a-sé dell'"esserci" nel suo considerarsi come possibilità. Ciò che consente però all'"esserci" di superare la dispersione di tali rapporti e in tali rapporti è l'anticipazione della morte quale unica possibilità autentica e totalizzante delle diverse possibilità dell'"esserci", che ne manifesta l'interna storicità e temporalità. L'uomo infatti "esiste" storicamente e temporalmente non perché vive "nel" tempo o in una storia che lo condiziona dall'esterno, ma perché propriamente l'essenza dell'"esserci", la sua "ex-sistenza", è un "temporalizzare", un di spiegarsi nelle dimensioni temporali, il passato, il presente, il futuro nell'orizzonte delle quali si colloca e spiega la comprensione dell'essere. Attraverso l'analitica esistenziale si giunge così non solo a comprendere come decisivo per l'ontologia il rapporto tra essere e tempo, ma anche a gettare nuova luce sull'intera storia della metafisica e a scoprirne i limiti; le concezioni inadeguate dell'essere o, addirittura, l'occultamento del problema dell'essere si rivelano infatti risultato non di errori più o meno casuali, ma del privilegiamento di una dimensione del tempo, e cioè del presente, per cui l'essere degli enti è stato ridotto alla loro presenza e disponibilità. L'inizio di questo processo - su cui H. torna ripetutamente nelle opere successive a Sein und Zeit - si ha in Grecia e con Platone, quando la verità, anziché come disvelamento dell'essere, viene intesa come idea, come presenza visibile all'intelletto, quindi come esattezza. Come espressione adeguata della verità viene quindi considerata la proposizione o, meglio, quelle forme di proposizione e di giudizio che siano conformi alle regole della logica, mentre soltanto nell'arte e nel linguaggio permane ancora traccia e sentore del significato originario della verità, occultato dalla metafisica. A sua volta la metafisica non va intesa come una semplice dottrina o una semplice parte della filosofia, bensì come qualcosa che ha permeato e permea in modo decisivo l'intera civiltà occidentale, determinandone il destino, e sta ora estendendo il suo dominio sull'intero pianeta, poiché se è scomparsa o ha perso credito come dottrina, in effetti si è realizzata attraverso la scienza e la tecnica come calcolo e volontà di potenza. Di qui l'importanza del confronto con Nietzsche che, secondo H., sta in un certo senso al culmine dello sviluppo della metafisica, poiché ne ha individuato con lucidità il carattere di volontà di potenza; anche Nietzsche però rientra nella storia della metafisica poiché non è stato abbastanza radicale nella sua critica della metafisica, in quanto ha ancora pensato in termini di "valori", auspicando con il "superuomo" la sostituzione dei valori ormai consunti e rivelatisi ingannevoli con altri nuovi e più autentici. Occorre invece andare a fondo nella critica della metafisica, mettendo in luce quanto di metafisico vi è anche nella nozione di uomo quale si è tradizionalmente affermata: per questo H., nella celebre polemica contro Sartre nel Brief über den Humanismus prende decisamente posizione contro qualsiasi forma di umanismo considerandolo solidale alla metafisica e all'oblio della differenza ontologica, ossia della differenza tra l'essere e gli enti da cui la metafisica è scaturita ed è condizionata. Questo tema è essenziale per comprendere l'interpretazione heideggeriana del nichilismo che non può essere considerato come qualcosa di semplicemente storico-culturale, come una forma di decadenza a cui si può reagire con questa o quella terapia culturale (come in un certo senso anche Nietzsche auspicava). Perfino il nichilismo come decadenza, il nichilismo per così dire "inautentico", si spiega soltanto in base al nichilismo "autentico", ossia alla funzione del nulla che condiziona la finitezza degli enti e la loro differenza dall'essere e che nella storia della metafisica è stato in parte celato e occultato. In un quadro così sconfortante della situazione contemporanea, una situazione di "indigenza" nella quale gli dèi del passato sono scomparsi, ma ancora non si intravede l'avvento di nuovi, il rapporto alla verità rimane sostanzialmente affidato all'"ascolto" dell'essere che ha la dimora nel linguaggio, all'interpretazione della parola dei poeti, secondo quella "svolta" del pensiero di cui H. ha parlato nel Brief über den Humanismus. Si afferma così un concetto di verità diverso da quello della logica e delle scienze e di cui si può considerare come testimonianza quell'"accadere" dell'opera d'arte che è un accadere intrinsecamente storico, proprio come il linguaggio è propriamente un'apertura di senso che è sempre "per via", essendo la verità un continuo sottrarsi e disvelarsi nell'orizzonte della finitezza. Per questi ultimi sviluppi il pensiero heideggeriano è stato accostato da un lato anche a correnti recenti del pensiero anglosassone come l'ultimo Wittgenstein e, più in generale, l'analisi del linguaggio comune, e, per altro verso, ha alimentato e promosso un rinnovato interesse per l'ermeneutica; proprio perché il linguaggio è l'autentica dimora dell'essere, l'interpretazione non è più un metodo peculiare di questa o quella scienza o disciplina, ma è il processo fondamentale del pensiero e si pone perciò al centro non solo della teologia e dell'estetica, della coscienza storica e della linguistica, ma dell'intera filosofia.

domenica 20 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 100 Wittgenstein 1889

 Ludwig Joseph Wittgenstein 1889

Ludwig Joseph Wittgenstein (Vienna, 1889 – Cambridge, 1951) è una delle figure più affascinanti e influenti della filosofia del Novecento, un pensatore capace di rivoluzionare per ben due volte il nostro modo di concepire il linguaggio.

Abbandonati gli studi di ingegneria a Manchester per seguire la sua vera passione – la logica e i fondamenti della matematica – nel 1912 approda a Cambridge, dove diventa allievo di Bertrand Russell. La Prima guerra mondiale lo vede ufficiale nell’esercito austriaco; poi, tra il 1920 e il 1926, insegna nelle scuole elementari. Nel 1929 torna a Cambridge e, dal 1939, ricopre la cattedra di filosofia, prima di dimettersi nel 1947 per dedicarsi interamente alla ricerca. Dal 1938 è cittadino britannico.

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Il suo pensiero attraversa due grandi fasi.
La prima, racchiusa nel capolavoro Tractatus logico-philosophicus (1922), indaga la natura del linguaggio come specchio della realtà. Wittgenstein immagina un “linguaggio perfetto”, in cui ogni proposizione elementare corrisponde a un fatto semplice, un dato immediato dell’esperienza. La scienza, così, sarebbe l’insieme di tutte queste proposizioni empiriche; la logica e la matematica pura, prive di contenuto empirico, sarebbero tautologie, cioè “pseudo-proposizioni”. Le affermazioni filosofiche tradizionali, non riconducibili a nessuna di queste categorie, sarebbero invece “senza senso” o “insensate”. La filosofia, per Wittgenstein, non è una dottrina ma un’attività: mostrare la struttura logica di ciò che si dice, fino a spingersi là dove il linguaggio non può più arrivare. Da qui la celebre conclusione: «Su ciò di cui non si può parlare, si deve tacere».

La seconda fase, sviluppata durante il suo insegnamento a Cambridge e raccolta nelle opere postume come Ricerche filosofiche (1953), abbandona l’idea di un linguaggio unico e perfetto per rivolgersi al linguaggio quotidiano. Wittgenstein introduce il concetto di giochi linguistici: così come esistono giochi diversi, ciascuno con regole proprie, anche il linguaggio si articola in una molteplicità di usi, ciascuno con la sua logica interna. Non ha senso cercare un’essenza unica del linguaggio; il significato delle parole nasce dall’uso concreto che ne fa chi parla. Il filosofo diventa così una sorta di “terapeuta” concettuale, impegnato a sciogliere le confusioni che nascono da un uso impreciso del linguaggio, specialmente in campi come la psicologia e il dibattito mente-corpo.

Il Tractatus influenzò profondamente il Circolo di Vienna e, in particolare, Moritz Schlick; la seconda fase, invece, segnò in profondità la filosofia anglosassone e diede impulso a nuovi sviluppi nel pensiero del linguaggio. Le interpretazioni più recenti, però, invitano a leggere Wittgenstein nella sua interezza, riconoscendo non solo la sua appartenenza alla filosofia analitica, ma anche il legame con la ricca tradizione culturale mitteleuropea e viennese, dove la dimensione etica occupa un ruolo centrale, accanto a quella logica e linguistica.

Un pensatore complesso, radicale, eppure sorprendentemente vicino alla vita reale di chi parla e ascolta: per Wittgenstein, capire il linguaggio significa capire noi stessi.


Corso di storia della filosofia: 111 Lacan 1901

Jacques Lacan 1901

Jacques Lacan (1901 – 1981) è stato uno psichiatra e filosofo francese nonché uno dei maggiori psicoanalisti.
Studiò medicina, specializzandosi poi in psichiatria alla scuola di G. Clérambault. Si laureò in psichiatria nel 1932 con una tesi su "La psicosi paranoica nei suoi rapporti con la personalità". In seguito fu allievo di Alexandre Kojève.
Fu anche uno strutturalista e basò molte delle sue teorie, oltre che sulle opere di Sigmund Freud, anche sulle teorie linguistiche di Ferdinand de Saussure. Celebre la sua tesi secondo la quale l'inconscio sarebbe "strutturato come un linguaggio"; da qui la centralità dell'attenzione alla veicolazione di significati attraverso la comunicazione verbale nella teoria della tecnica lacaniana. Importante anche la sua teorizzazione relativa alla "fase dello specchio".
Lacan, pur essendo considerato da molti un innovatore del pensiero freudiano, dichiara di voler "tornare all'insegnamento originario di Freud" e malgrado sia stato sconfessato più di una volta dalle istituzioni freudiane ortodosse si è sempre proclamato l'unico vero interprete dell'insegnamento di Freud.
Le sue complesse tesi, più che essere organizzate in modo organico in libri, vennero esposte nei suoi famosi seminari del mercoledì, tenuti dal 1953 fino al 1980.
Le sue opere principali comunque sono state pubblicate con il titolo Scritti nel 1966.
Lacan è stato criticato per la mancanza di chiarezza dei suoi scritti (fra gli altri da Martin Heidegger, che li riteneva incomprensibili e che commentò sul suo conto: "questo psichiatra ha bisogno di uno psichiatra") e per l'utilizzo, ritenuto ingiustificato, di concetti provenienti dalle scienze pure. Nel loro libro Imposture intellettuali, i fisici Alan Sokal e Jean Bricmont citano fra l'altro come Lacan paragoni il fallo alla radice quadrata di -1.

sabato 19 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 101 ter Lukács 1885

György Lukács 1885

György Lukács nacque a Budapest nel 1885, in un’Ungheria che stava vivendo i fermenti e le contraddizioni della modernità. Figlio della borghesia colta, crebbe in un ambiente dove la cultura era considerata parte integrante della vita quotidiana. Fin da giovane, la sua curiosità intellettuale lo spinse ben oltre i confini della filosofia scolastica, portandolo a interrogarsi su come arte, letteratura, storia e società si intrecciassero in un unico disegno.

Nel 1906 si laureò a Budapest, ma il desiderio di ampliare i propri orizzonti lo condusse, appena tre anni dopo, in Germania. Qui, tra Berlino e Heidelberg, trascorse anni decisivi: non solo approfondì gli studi di filosofia, ma entrò in contatto diretto con alcune delle menti più brillanti dell’epoca, come Georg Simmel, Max Weber, Heinrich Rickert e Emil Lask. Fu anche il tempo della Hegel-Renaissance guidata da Wilhelm Dilthey, che avrebbe lasciato in lui un segno indelebile.

Da questo crogiolo culturale nacquero le sue prime opere fondamentali: L’anima e le forme (1911) e Teoria del romanzo (1915), testi in cui si intrecciano l’analisi filosofica e la riflessione estetica, il rigore concettuale e la passione per la letteratura. In queste pagine già si intravede il filo conduttore del suo pensiero: la convinzione che l’arte e la filosofia possano e debbano interpretare la complessità dell’esperienza umana.

Il 1923 segnò una svolta. Con Storia e coscienza di classe, Lukács si immerge pienamente nell’universo marxista, proponendo una lettura originale e profonda di Marx. Qui, unisce la teoria della reificazione e del feticismo con la critica hegeliana all’intelletto astratto e al materialismo riduttivo, opponendosi ai metodi puramente analitici e quantitativi delle scienze naturali. Al centro del suo approccio c’è la categoria della totalità concreta: solo comprendendo i fenomeni nel loro insieme, nel loro intreccio di relazioni e contraddizioni, è possibile coglierne il senso autentico.

Ma questo libro, che influenzò una parte importante della cultura europea, fu anche la causa di forti tensioni politiche. Le sue critiche alla “dialettica della natura” di Engels gli valsero l’ostilità della Terza Internazionale. Legato ormai al movimento comunista – nel 1919 aveva partecipato come commissario del popolo all’istruzione alla breve Repubblica sovietica ungherese di Béla Kun – Lukács finì per prendere le distanze dall’opera, inaugurando così la seconda fase del suo percorso: l’elaborazione di una estetica marxista.

In testi come Il giovane Hegel e i problemi della società capitalistica (1948), Lukács difese la continuità metodologica tra Hegel e Marx-Engels, mentre in La distruzione della ragione (1954) tracciò una storia del pensiero tedesco nell’età imperialistica, individuando un filone irrazionalistico che, a suo dire, conduceva da Schelling fino all’ideologia nazista.

Come teorico dell’arte, Lukács elaborò una visione fondata sulla concezione leniniana del rispecchiamento e sulla centralità del particolare: l’arte più alta è per lui il realismo, capace di rappresentare personaggi “tipici” in situazioni “tipiche” che rivelano le strutture profonde della società. I suoi studi sul realismo – da Balzac ai grandi romanzieri russi, fino a Thomas Mann – hanno lasciato un’impronta duratura nella critica letteraria.

Nel 1956, durante il disgelo politico in Ungheria, Lukács entrò nel secondo governo di Imre Nagy come ministro della Pubblica istruzione. Fu un momento breve ma intenso: dopo la repressione sovietica, venne deportato in Romania e poté rientrare a Budapest solo nel 1957. Da allora si ritirò dalla vita pubblica, dedicandosi esclusivamente alla ricerca e alla scrittura, fino alla morte, avvenuta nella sua città natale nel 1971.

Il lascito di Lukács è quello di un pensatore che ha saputo unire filosofia, storia, politica e letteratura in un unico discorso coerente e militante. Un intellettuale capace di attraversare il Novecento con lo sguardo critico di chi crede che la cultura non sia un lusso, ma una forza capace di trasformare la realtà.



venerdì 18 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 117 Bachelard 1884

Gaston Bachelard 1884 

filosofo

Gaston Bachelard (1884 – 1962) è stato un filosofo della scienza e della poesia francese.Epistemologo illustre, è autore di numerose riflessioni legate alla conoscenza e alla ricerca.Gaston Bachelard ha avuto una carriera fuori dal comune. All'inizio impiegato alle poste, prende la laurea e diventa professore di fisica e chimica a Bar-sur-Aube. Riesce nel 1922 a laurearsi anche in filosofia e insegna questa materia alla Facoltà di Dijon prima di diventare professore alla Sorbona fino al 1954. Nella sua opera fondamentale: Il nuovo spirito scientifico (1934), Gaston Bachelard compie un superamento del dibattito tra empirismo e razionalismo, così come Karl Popper, autore a cui viene spesso contrapposto. Per Bachelard, il materialismo razionale si trova al centro di uno spettro epistemologico le cui due estremità sono costituite dall'idealismo e dal materialismo.  Bachelard si impegna per una critica severa dell’induttivismo e dell'empirismo. Il fatto scientifico si trova sempre costruito alla luce di una problematica teorica. La scienza si sviluppa in opposizione all'evidenza, contro le illusioni della conoscenza immediata. È in questo senso che Bachelard parla di una «filosofia del non». L'accesso alla conoscenza come la storia delle scienze è dunque segnata da un «taglio epistemologico» che opera una separazione con il pensiero prescientifico. Produrre conoscenze nuove significa dunque superare "ostacoli epistemologici", secondo l'espressione di Bachelard che parla anche di rottura epistemologica.Per Bachelard, ogni conoscenza è una conoscenza avvicinata: «Scientificamente, si pensa il vero come correzione storica di un lungo errore, si pensa l'esperienza come correzione della comune e prima illusione».Bachelard si impegna per un'epistemologia concordataria. Ritiene sia indispensabile superare l'opposizione tra empirismo e razionalismo: «Né razionalità vuota, né materialismo sconnesso». «L'attività scientifica richiede la messa in opera di un razionalismo applicato» o di «un materialismo razionale».Avendo le sue idee numerose affinità con quelle di Ferdinand Gonseth, contribuì con lui alla creazione e alla vita della rivista Dialectica.Nella seconda parte della sua impresa filosofica, Bachelard si consacra a uno studio approfondito dell'immaginario poetico. In un testo divenuto celebre, Le dormeur éveillé, dichiara: "La nostra appartenenza al mondo delle immagini è più forte, più costitutiva del nostro essere che non l'appartenenza al mondo delle idee". Incoraggia allora le dolcezze del fantasticare (della "rêverie") e si lascia andare alle evocazioni ispirate dalla "fiamma di una candela".

giovedì 17 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 103 Malinowski 1884

Bronislaw Malinowski 1884







Bronislaw Malinowski (1884 – 1942) è stato un antropologo polacco, naturalizzato britannico e considerato universalmente come uno dei più importanti studiosi del XX secolo. È celebre per la sua attività pionieristica nel campo della ricerca etnografica, per gli studi sulla reciprocità e per le acute analisi sugli usi e costumi delle popolazioni della Melanesia. Conseguì il dottorato all'Università Jagellonica nel 1908. Successivamente frequentò l'Università di Lipsia, dove subì l'influenza di Wilhelm Wundt e delle sue teorie sulla psicologia popolare: interessi che lo spinsero ad occuparsi di antropologia. Nel 1910 si trasferì a Londra, per studiare alla London School of Economics and Political Science. Nel 1914, in occasione del suo primo viaggio in Papua Nuova Guinea svolse lavori di ricerca etnografica a Maliu. Rimasto bloccato lì per lo scoppio della Prima guerra mondiale, ne approfittò per recarsi nelle isole Trobriand, dove realizzò il suo più celebre studio, quello sul Kula. Esso è una forma di scambio cerimoniale che consiste in periodiche spedizioni su canoe che ogni gruppo organizza per andare a fare visita alle comunità delle altre isole, con cui vengono scambiati doni. Lo scambio simbolico si basava su due tipi di doni: collane di conchiglie rosse, dette soulava, venivano scambiate con braccialetti di conchiglie bianche, dette mwali. A questo si aggiungeva un baratto informale detto gimwali con cui venivano scambiati oggetti d'uso di ogni tipologia. Egli giunse alla conclusione che il kula serviva come meccanismo di attivazione di determinate forme di solidarietà sociale: grazie al kula si contribuiva a fare legare le persone attraverso una serie di obblighi e sulla base di un principio di collaborazione.
Nel 1922 Malinowski, conseguito il dottorato in antropologia, iniziò l'attività di insegnante nella stessa London School of Economics. Pubblicò, nello stesso anno, Argonauti del pacifico occidentale, il cui successo fu tale da portare la fama dell'etnologo a livelli mondiali. Nei tre decenni successivi, grazie al suo contributo attivo, la London School of Economics diventò uno dei maggiori centri europei per gli studi antropologici, intensificando i rapporti con studenti provenienti dalle colonie britanniche.
Con lo scoppio della Seconda guerra mondiale si trasferì negli Stati Uniti, insegnando all'Università di Yale fino al momento della sua morte, avvenuta nel 1942.
Malinowski è considerato il padre della moderna etnografia, di cui ha rivoluzionato la metodologia e l'approccio pratico. È stato, insieme ad Alfred Radcliffe-Brown, il maggiore esponente del funzionalismo britannico. Questa scuola di pensiero è caratterizzata da una particolare attenzione all'analisi dei fattori che contribuiscono al mantenimento dell'equilibrio interno di una società, che appunto la teoria funzionalista concepisce come un organismo al cui funzionamento contribuiscono le sue varie parti. Questa visione del sistema sociale come una sorta di organismo vivente prevale soprattutto in Radcliffe-Brown (che la riprese dalle tesi di Emile Durkheim, il padre del funzionalismo in sociologia), il cui approccio è appunto definito antropologia sociale proprio per l'importanza centrale attribuita alla società. Diverso è l'approccio di Malinowski, il quale pur mantenendo una visione funzionalista pone al centro dei suoi studi l'individuo e non la società. Malinowski teorizza la sua nozione di cultura nel saggio postumo Una teoria scientifica della cultura (1944), anche se le conclusioni erano già presenti in nuce nella sua ricerca sul campo nelle Trobriand. Egli riprende l'interpretazione tyloriana della cultura come insieme complesso, ma ne accentua l'aspetto organicistico trasformandola in un “tutto integrato” in cui ogni singola parte contribuisce al funzionamento dell'insieme. Malinowski ritiene che ogni cultura sia costituita dall'insieme di risposte che la società dà ai bisogni universali degli esseri umani. Tali bisogni sono di due tipi: alla base vi sono i bisogni umani universali (basic needs), come il mangiare, il dormire, il riprodursi e a cui ogni cultura fornisce proprie peculiari risposte; la soddisfazione dei bisogni primari crea quindi bisogni secondari o derivati come l'organizzazione politica ed economica che nascono dalla necessità di ogni società di mantenere la propria coesione interna. C'è infine un terzo tipo di bisogni, bisogni di carattere culturale, come le credenze, le tradizioni, il linguaggio. A tutti questi livelli di necessità umane, ogni cultura dà risposte coerenti alla propria natura. Su queste premesse, come ha notato James Clifford, Malinowski ha potuto basarsi sull'analisi di un singolo aspetto della cultura di un popolo per capire l'insieme complesso di cui questo aspetto è parte. L'approccio di Malinowski rende quindi possibile giungere al tutto attraverso una o più delle sue parti. La figura retorica della sineddoche è perfettamente in grado di spiegare questo approccio: la parte è concepita infatti come una “versione in scala” o come una “cifra analogica” del tutto.

mercoledì 16 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 94 Jaspers 1883

Karl Jaspers 1883


Karl Jaspers (1883–1969) è stato un filosofo, psichiatra e scrittore tedesco, tra i più importanti esponenti dell’esistenzialismo del XX secolo, accanto a Martin Heidegger e Jean-Paul Sartre. Nato a Oldenburg nel 1883, iniziò la sua carriera come psichiatra, ma si distinse ben presto per i suoi contributi filosofici.

Tra i suoi concetti più influenti ci sono:

  • Le “situazioni-limite”: esperienze come la morte, la sofferenza, il fallimento, che spingono l’individuo a confrontarsi con la propria esistenza autentica.
  • La “comunicazione esistenziale”: il rapporto profondo tra persone che cercano la verità oltre le apparenze.
  • Il concetto di “trascendenza”: la ricerca di un significato che va oltre la realtà empirica.

Jaspers fu anche uno dei primi filosofi a parlare della responsabilità collettiva dopo la Seconda Guerra Mondiale, affrontando il problema della colpa in Germania.

La sua opera principale è “Filosofia” (1932), un'opera monumentale in tre volumi.

Vuoi un approfondimento su un’opera o concetto in particolare?


martedì 15 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 90 Hartmann 1882

Nicolaj Hartmann 1882

Nicolaj Hartmann filosofo (Riga 1882 - Gottinga 1950). Insegnò nelle univ. di Marburgo, Colonia, Berlino, Gottinga. H. si ricollega alla fenomenologia husserliana e al neokantismo della scuola di Marburgo, che però sposta sul piano di un intransigente realismo gnoseologico. Egli inoltre afferma la priorità del problema dell'essere sul problema del conoscere e la centralità della metafisica, la quale, a differenza della metafisica classica, deve limitarsi a conoscere l'irriducibile insolubilità e, nello stesso tempo, l'inevitabilità dei problemi fondamentali. Opere principali: Grundzüge einer Metaphysik der Erkenntnis (1921); Philosophie des deutschen Idealismus (2 voll., 1923-29); Ethik (1926); Zum Problem der Realitätsgegebenheit (1931); Das Problem des geistigen Seins (1932); Zur Grundlegung der Ontologie (1935); Möglichkeit und Wirklichkeit (1938); Der Aufbau der realen Welt (1940); Neue Wege der Ontologie (1942); Philosophie der Natur (1950); Kleinere Schriften (post., 3 voll., 1955-58).

lunedì 14 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 99 Schlick 1882

Moritz Schlick 1882



Moritz Schlick filosofo tedesco (Berlino 1882 - Vienna 1936). Conseguì il dottorato con Planck a Berlino nel 1904. Insegnò poi nelle univv. di Rostock (1911-17) e di Kiel (1921) e nel 1922 ottenne la cattedra di filosofia delle scienze induttive nell’univ. di Vienna, città dove divenne uno degli animatori del Circolo di Vienna, centro di diffusione della nuova filosofia scientifica neopositivistica. Diresse con Philipp Frank la collezione di studi neopositivisti in cui apparve il suo saggio Fragen der Ethik (1930; trad. it. Problemi di etica e Aforismi). Fu assassinato da uno studente. Già nella sua prima opera significativa, Raum und Zeit in der gegenwärtigen Physik (1917; trad. it. Spazio e tempo nella fisica contemporanea), S. aveva sviluppato, sotto l’influenza dell’epistemologia di Helmholtz e di Poincaré, e in base a un’analisi della teoria relativistica einsteiniana, una critica radicale delle posizioni gnoseologiche kantiane, specie della concezione del sintetico a priori, mostrando l’impossibilità dell’assolutizzazione kantiana della fisica newtoniana, la convenzionalità di alcuni assunti scientifici e il costante rimando delle teorie scientifiche a una fase empirica. Successivamente nella sua Allgemeine Erkenntnislehre (1918; trad. it. Teoria generale della conoscenza) S. estendeva la sua critica all’intero ambito della conoscenza, sottolineando l’esaustività della distinzione tra proposizioni analitiche e proposizioni sintetiche a posteriori e approdando a una forma di realismo critico. Proponeva inoltre un criterio di demarcazione tra proposizioni scientifiche e proposizioni metafisiche, considerando queste ultime formazioni linguistiche in contraddizione con le regole del linguaggio, visto come rispecchiamento del reale. Il contatto con Wittgenstein e con Carnap condusse più tardi S. a concepire come compito della filosofia non più l’acquisizione di conoscenze, ma la riflessione critica sui metodi e sui concetti della scienza mediante l’applicazione dell’analisi logica del linguaggio. La chiarificazione preliminare del significato dei termini in esame consente così a S. la purificazione dei concetti scientifici dai fraintendimenti metafisici e la critica analitica di importanti posizioni filosofiche contemporanee. Di notevole importanza l’equazione da lui proposta tra criterio di significanza e criterio di verifica (il significato di una proposizione è il metodo della sua verifica), fonte di accese polemiche nell’ambito del Circolo di Vienna. S. elaborò anche una sua riflessione etica, concependo l’etica come scienza di fatti, non normativa, e tentando, mediante un’analisi dei valori, la fondazione empirica dell’eudemonismo: saranno eticamente valide solo quelle azioni cui si accompagni un’esperienza gioiosa, quella tipica del gioco e dell’età giovanile. Tra le sue opere si segnalano: Lebensweisheit. Versuch einer Glückseligkeitslehre (1908); Vom Sinn des Lebens (1927); Gesammelte Aufsätze 1926-36 (post., 1938); Gründzuge der Naturphilosophie (post., 1948); Natur und Kultur (a cura di J. Rauscher, post., 1952); Aphorismen (post., 1962; trad. it. Problemi di etica e Aforismi).

domenica 13 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 104 bis Aron 1905

Aron 1905

Raymond Aron – Il liberale controcorrente del Novecento

Nato nel cuore della Terza Repubblica francese, nel 1905, Raymond Aron attraversò il XX secolo con lo sguardo lucido del testimone critico. Filosofo, sociologo, politologo, giornalista, Aron fu una figura poliedrica e difficilmente incasellabile, ma sempre fedele a una missione: difendere la ragione, la libertà e il pluralismo in un’epoca segnata da ideologie totalizzanti.

Contro il fascino delle ideologie

Aron si formò alla prestigiosa École Normale Supérieure, accanto a compagni illustri come Jean-Paul Sartre. Ma se Sartre si sarebbe immerso nelle acque agitate dell’esistenzialismo e poi del marxismo, Aron prese una strada diversa: scelse la sobrietà del pensiero critico e il rigore della riflessione politica liberale.

Fin da giovane, fu affascinato dalla filosofia tedesca e dalla sociologia di Max Weber, che lo influenzò profondamente. Weber lo aiutò a costruire una visione della politica come ambito tragico, dominato da dilemmi, non da soluzioni perfette.

Durante la Seconda Guerra Mondiale si rifugiò a Londra e collaborò con il governo della Francia Libera. Tornato in patria, divenne un acuto osservatore della Guerra Fredda, delle trasformazioni sociali e del mondo intellettuale francese. Non accettò mai compromessi con i totalitarismi: fu critico del comunismo sovietico quanto del fascismo, e non esitò a denunciare le ambiguità dei suoi colleghi filosofi che chiudevano un occhio davanti ai crimini dei regimi "di sinistra".

Il disincanto del politico

Uno dei suoi libri più celebri, "L’oppio degli intellettuali" (1955), è un attacco tagliente alla fascinazione che molti intellettuali francesi avevano per il marxismo. Aron accusa i suoi contemporanei di usare ideologie come surrogati religiosi, accecati dalla fede nella storia e incapaci di vedere i fatti. Scriveva con chiarezza, senza giri di parole, ma con tono mai violento: era un liberale disincantato, non un ideologo.

Nelle sue opere affrontò temi fondamentali: il rapporto tra potere e verità, tra libertà e responsabilità, tra storia e scelte individuali. Il suo approccio era sempre concreto, attento ai dati, ai fatti, alle istituzioni reali. Fu uno dei primi a studiare il ruolo della tecnologia, della burocrazia e dei media nella società moderna.

Un maestro poco ascoltato (ma sempre attuale)

Aron visse spesso in ombra rispetto ai filosofi più “di moda” del suo tempo, come Sartre o Foucault. Eppure oggi molti lo riscoprono come una delle voci più lucide e lungimiranti del secolo scorso. In un mondo in cui l’informazione è veloce, i giudizi si polarizzano, e le ideologie tornano a sedurre, Aron ci ricorda l’importanza del dubbio, dell’analisi razionale, della democrazia come pratica imperfetta ma insostituibile.

Morì nel 1983, poco dopo un acceso dibattito televisivo: aveva parlato di politica fino all’ultimo, con la sua consueta lucidità. Raymond Aron non ci ha lasciato verità assolute, ma uno stile di pensiero: libero, critico, sempre in ascolto della realtà.

Corso di storia della filosofia: 83 Spengler 1880

Oswald Spengler 1880


Oswald Spengler è stato un filosofo, storico e teorico tedesco, noto principalmente per il suo lavoro "Der Untergang des Abendlandes" (Il tramonto dell'Occidente). Nato il 29 maggio 1880 a Blankenburg, nell'Impero tedesco, e morto il 8 maggio 1936 a Monaco di Baviera, Spengler è stato una figura importante nel panorama intellettuale del suo tempo. "Il tramonto dell'Occidente", pubblicato in due volumi nel 1918 e nel 1922, è l'opera più conosciuta di Spengler. In questo lavoro, egli ha sviluppato una prospettiva storica e filosofica che proponeva un'interpretazione ciclica della storia delle civiltà umane. Spengler affermava che le culture umane seguono un ciclo di crescita, sviluppo, declino e caduta, e ha identificato diverse fasi nella storia delle civiltà. Secondo la teoria di Spengler, le culture hanno una fase di giovinezza, una fase di maturità e una fase di declino, paragonando le civiltà a organismi biologici. Egli ha applicato questa teoria a diverse civiltà, tra cui la civiltà greca, la civiltà romana, la civiltà egizia e l'Occidente europeo. La sua prospettiva era pessimistica riguardo al futuro dell'Occidente, vedendo nella modernità e nella società borghese un segno del declino. "Il tramonto dell'Occidente" ha suscitato reazioni contrastanti e controversie, alcuni lo hanno elogiato come una visione profetica della storia, mentre altri l'hanno criticato per la sua mancanza di rigore scientifico e per la sua tendenza al fatalismo. Tuttavia, il lavoro di Spengler ha influenzato notevolmente il pensiero storico e filosofico del XX secolo. Oltre al suo lavoro principale, Spengler ha scritto altri libri e saggi, tra cui "Preußentum und Sozialismus" (Prussianesimo e Socialismo) e "Jahre der Entscheidung" (Anni di Decisione), che approfondiscono i suoi punti di vista sulla storia, la cultura e la società. La sua eredità intellettuale continua a essere oggetto di studio e discussione nel campo della storia e della filosofia.

sabato 12 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 85 Gentile 1875

Giovanni Gentile 1875


Filosofo e storico della filosofia (Castelvetrano 1875 - Firenze 1944). Discepolo alla Scuola normale superiore di Pisa di D. Jaja (che lo avvicinò al pensiero di B. Spaventa), di A. D'Ancona e di A. Crivellucci; professore nelle università di Palermo (1906-13), Pisa (1914-16), Roma (dal 1917); direttore (1929-43) della Scuola normale superiore di Pisa, di cui promosse l'ampliamento e lo sviluppo; collaboratore con B. Croce per un ventennio nella redazione della Critica e nell'opera di rinnovamento della cultura italiana; fondatore (1920) e direttore del Giornale critico della filosofia italiana; ministro della Pubblica Istruzione (ott. 1922 - luglio 1924); senatore del Regno (dal nov. 1922); socio nazionale dei Lincei (1932); presidente dell'Accademia d'Italia (dal nov. 1943). Considerò il fascismo come il continuatore della destra storica nell'opera del Risorgimento, e ad esso aderì; ma si tenne lontano, soprattutto nella collaborazione intellettuale, da ogni intransigenza verso persone di opposti convincimenti. Dopo essere stato ministro della Pubblica Istruzione, abbandonò la politica attiva, dedicandosi, oltre che agli studî, alla promozione e organizzazione d'imprese culturali (tra cui l'Enciclopedia Italiana, di cui fu anche il direttore scientifico). Il 24 giugno 1943 riapparve alla ribalta politica con un discorso sul Campidoglio, in cui auspicava, come italiano e "non gregario di un partito che divide", l'unione di tutte le forze per la salvezza del paese, che era sull'orlo della sconfitta. Nella seconda metà di novembre fu nominato da B. Mussolini presidente dell'Accademia d'Italia, trasferita in quei frangenti a Firenze. E a Firenze fu ucciso da un gruppo di giovani aderenti ai GAP (gli scritti suoi di quel tragico periodo furono poi raccolti dal figlio Benedetto nel volume: G. Gentile: dal discorso agli Italiani alla morte, 1950). La filosofia di G. (La riforma della dialettica hegeliana, 1913; Teoria generale dello spirito come atto puro, 1916; I fondamenti della filosofia del diritto, 1916; Sistema di logica, 2 voll., 1917-23; Discorsi di religione, 1920; Filosofia dell'arte, 1931; Introduzione alla filosofia, 1933; Genesi e struttura della società, post., 1946) s'incentra sul concetto del pensiero come "atto puro"; donde la denominazione di "attualismo" o "idealismo attuale" da essa assunta. Tale concetto è inteso non, come in Aristotele, quale realtà priva di potenza e quindi perfettamente realizzata, bensì come realtà che è lo stesso processo di realizzazione, ossia come pensiero pensante o pensiero in prima persona o Io (risolvente in sé tutto il reale naturale o storico), il quale "è" tale in quanto "non è" già o di fatto, ma "diviene", si fa. Pertanto l'Io - in cui G. ritrova l'io trascendentale di I. Kant liberato dal noumeno e da ogni dualismo di attività teoretica e pratica - si pone come sintesi "attuosa" di coscienza di sé e coscienza di altro da sé, o come autodeterminazione dell'"autoconcetto" nel "concetto", il quale è il "risultato in cui termina un processo dinamico vivo". In questa conciliazione della fermezza del pensato e della dinamicità del pensare (in cui il primo è contenuto e risolto), G. trova l'inveramento della logica aristotelica, o dell'identità, e della logica hegeliana, o dialettica. Con la critica e la negazione di ogni presupposto dell'attività dell'Io, e quindi di ogni dualismo (di natura e spirito, finito e infinito, ecc.), si afferma l'assoluto spiritualismo o immanentismo. Tale concezione, che risolve tutta la realtà e ogni forma della vita spirituale nell'atto del pensiero, identifica questo ultimo con la filosofia o autocoscienza, quale mediazione dialettica dell'arte e della religione, concepita l'una come momento della pura soggettività o sentimento e l'altra come momento della pura oggettività; e conduce parimenti all'identificazione di storia e filosofia, come risoluzione del passato nel presente eterno dell'atto. Dalla concezione attualistica G. ricavò, rispetto al problema educativo (Sommario di pedagogia, 2 voll., 1913-14; La riforma dell'educazione, 1920; Educazione e scuola laica, 1921; Preliminari allo studio del fanciullo, 1924), due principali conseguenze: l'identità di pedagogia e filosofia e il concetto dell'autonomia dell'educando, onde l'educazione, quale processo unificatore di educando ed educatore, è propriamente autoeducazione. Queste idee presiedettero alla riforma della scuola del 1923, attuata da G. ministro della Pubblica Istruzione (i cui scritti e discorsi furono poi raccolti nel volume La riforma della scuola in Italia, 1932). Tale riforma (la più organica dall'unificazione d'Italia in poi) concepiva la scuola come funzione essenziale dello stato; tuttavia consentì, in omaggio al principio della libertà d'insegnamento, l'istituzione di scuole private, a fianco di quelle pubbliche, ma con il controllo dello stato sulle une e le altre mediante l'"esame di stato", che doveva altresì accertare la maturità del candidato; intese sostituire all'istruzione manualistica e informativa quella formativa che si basa sul contatto diretto con gli autori classici; riconobbe, in antitesi all'indirizzo strettamente intellettualistico della scuola tradizionale, il valore dell'educazione estetica e di quella religiosa; promosse l'educazione fisica e sportiva; rinnovò le scuole di tipo moderno e professionale. Notevole anche il suo impegno nel campo dell'estetica e della critica letteraria (Frammenti di estetica e letteratura, 1921; Manzoni e Leopardi, 1928; Filosofia dell'arte, 1931; Studi su Dante, post., 1965). Teorizzando l'arte come il momento dialettico dell'immediato sentimento, che si media esprimendosi e incarnandosi nel pensiero o filosofia, di cui è l'"anima ascosa e presente", egli assegnò alla critica (in ciò intendendo riallacciarsi fedelmente a F. De Sanctis) il compito di ricercare nell'artista l'uomo, ossia di considerare la forma come la concretezza di un contenuto reale (la concezione morale, la fede religiosa, il credo politico, ecc., di un artista). Pertanto un'opera di poesia non viene spezzata in poesia e non poesia, poesia e struttura, ma valutata nella sua unità e organicità, come opera di poesia e insieme di pensiero. G. ha svolto opera vastissima anche come storico della filosofia, attento soprattutto allo svolgimento della filosofia italiana: dallo studio Rosmini e Gioberti (1898, in cui riprendeva la sua tesi di laurea) ai volumi Dal Genovesi al Galluppi (1903), La Filosofia (nella Storia dei generi letterari it., 1904-15, poi ripubblicato col titolo Storia della filosofia italiana fino a L. Valla), I problemi della scolastica e il pensiero italiano (1913), Le origini della filosofia contemporanea in Italia (4 voll., 1917-23), G. Capponi e la cultura toscana del sec. XIX (1922). La sua opera storiografica, in cui si avverte l'influenza della prospettiva hegeliano-spaventiana (per cui la storia della filosofia è l'attuarsi progressivo dello spirito), è ricca di contributi puntuali (come gli Studi vichiani, 1915, e i due volumi sul Rinascimento: Studi sul Rinascimento, 1923; Giordano Bruno e il pensiero del Rinascimento, 1920; poi ripubblicato in 3ª ed., 1939, col titolo Il pensiero italiano del Rinascimento), nonché di ricerche erudite e di edizioni di testi soprattutto di filosofi italiani (da ricordare la collaborazione all'ed. di G. Vico e l'ed. dei Dialoghi metafisici e dei Dialoghi morali di G. Bruno). Da tale opera la storiografia filosofica ha ricevuto grande impulso, e molta influenza hanno esercitato certi suoi schemi interpretativi. G., che alla scuola aveva dato il meglio di sé, ebbe una folta schiera di discepoli e seguaci che, per un certo periodo, fecero dell'attualismo il sistema filosofico caratteristico della vita culturale italiana; negli ultimi anni di vita del filosofo, tuttavia, ebbe luogo un processo che doveva portare allo sfaldamento dell'unità del movimento attualistico, il quale si divise in due opposti indirizzi: l'uno teso a svilupparne i principî in forme di estremo storicismo e problematicismo, l'altro centrato sul tentativo di conciliarlo con la trascendenza e il teismo tradizionali.


venerdì 11 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 86 Cassirer 1874

Ernst Cassirer 1874

Ernst Cassirer filosofo e storico tedesco della filosofia (Breslavia 1874 - New York 1945). Dal 1919 fu prof. e poi rettore nell’univ. di Amburgo. All’avvento del nazismo fu costretto, a causa delle sue origini ebraiche, a lasciare la Germania: fu prof. a Oxford (1934), a Göteborg in Svezia (1935), infine presso la Yale University (1941) e la Columbia University (1944) negli Stati Uniti. Formatosi alla scuola neokantiana di Marburgo, subì l’influsso di H. Cohen, la cui interpretazione del criticismo kantiano come idealismo logico fondante la legalità della scienza, vista come l’unica disciplina in grado di fornire un resoconto coerente dell’esperienza, è riconoscibile nel primo periodo della produzione di Cassirer. Dopo avere esaminato lo sviluppo storico della teoria della conoscenza nel pensiero filosofico e scientifico dal Rinascimento a Kant (Leibniz’ System in seinen wissenschaftlichen Grundlagen, 1902; Das Erkenntnisproblem in der Philosophie und Wissenschaft der neueren Zeit, 4 voll., 1906, 1907, 1920 e 1950, trad. it. Storia della filosofia moderna), nella sua prima opera teorica, Substanzbegriff und Funktionsbegriff (1910; trad. it. Sostanza e funzione), C. analizzò la struttura logica degli ambiti fondamentali della scienza contemporanea. In questa analisi, il concetto di una sostanza indipendente dall’attività conoscitiva umana e garanzia dell’oggettività della conoscenza (concetto metafisico cardine almeno a partire da Aristotele) viene sostituito dal concetto di funzione, in base al quale l’oggettività della conoscenza è costituita dalle relazioni funzionali che l’intelletto stabilisce a priori tra i dati forniti dall’osservazione. A tale fondamento kantiano C. ricondusse anche la teoria einsteiniana della relatività (Zur Kritik der Einsteinschen Relativitätstheorie, 1921; trad. it. Sulla teoria della relatività di Einstein) e la meccanica quantistica (Determinismus und Indeterminismus in der modernen Physik, 1936; trad. it. Determinismo e indeterminismo nella fisica moderna). Nel contempo estese la stessa interpretazione kantiana alle altre sfere della cultura, tutte intese come autonome manifestazioni dell’attività conoscitiva dello spirito. Nella Philosophie der symbolischen Formen (3 voll., 1923, 1925 e 1929; trad. it. Filosofia delle forme simboliche) C. concepisce anche il mito, il linguaggio, la religione, l’arte, ecc., come forme simboliche per mezzo delle quali lo spirito dà un senso al reale. Tali forme, tra loro differenti a seconda del principio spirituale operante in esse ma unite dal fatto di essere creatrici di simboli (intuitivi o concettuali), permettono di eliminare la tradizionale contrapposizione tra epoche storiche in favore di una continuità funzionale tra le prime fasi mitico-magiche e quelle razionali della scienza contemporanea. Nel delineare la struttura complessiva del sistema delle forme simboliche, interagenti entro l’unità dello spirito, C., pur mantenendo ferma l’impostazione kantiana, risentì fortemente l’influsso della fenomenologia di Hegel. Il concetto di forma simbolica rimase il principio fondamentale delle sue successive opere teoriche: Zur Logik der Kulturwissenschaften (1942; trad. it. Sulla logica delle scienze della cultura); An essay on man (1944; trad. it. Saggio sull’uomo); The myth of the State (1946; trad. it. Il mito dello Stato). All’elaborazione del concetto di forma simbolica corrispose un ampliamento dell’interesse storiografico di C., che trovò espressione in numerose opere: Freiheit und Form (1916; trad. it. Libertà e forma); Kants Leben und Lehre (1918; trad. it. Vita e dottrina di Kant); Idee und Gestalt (1921); Individuum und Kosmos in der Philosophie der Renaissance (1927; trad. it. Individuo e cosmo nella filosofia del Rinascimento); Die Philosophie der Aufklärung (1932; trad. it. La filosofia dell’Illuminismo).

giovedì 10 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 91 Scheler 1874

Max Scheler 1874


Max Scheler, Filosofo (Monaco di Baviera 1874 - Francoforte sul Meno 1928). Professore nelle univ. di Jena, di Monaco, di Colonia e di Francoforte. Dopo un saggio ispirato ancora alle prospettive del suo maestro R. Eucken (Die transzendentale und die psychologische Methode, 1900), S. si avvicinò alla fenomenologia husserliana, sviluppandola anzitutto in direzione dell'etica con una serie di scritti tra cui il più celebre e importante è Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1916). Il metodo fenomenologico consente infatti, secondo S., d'individuare degli oggetti completamente inaccessibili all'intelletto e disposti tra loro in un ordine eterno e gerarchico: i valori. L'accertamento del loro ordine, mediante un'intuizione "sentimentale", porta alla scoperta di leggi altrettanto precise ed evidenti di quelle della logica e della matematica e tali da rendere possibile la fondazione dei fenomeni morali, in contrasto con l'etica puramente formale di Kant. I valori devono poi essere accuratamente distinti nei loro diversi piani (o modalità), che vanno da quello dei valori connessi alla sensibilità (come il gradevole e lo sgradevole), a quelli vitali (come il benessere, il malessere, la salute, ecc.), a quelli spirituali (il bello, il giusto, il vero, i valori culturali in generale) e infine a quelli religiosi (il sacro). All'approfondimento di quest'ultimo tipo di valori tende la filosofia della religione, sviluppata soprattutto in Vom Ewigen im Menschen (1921), dove S. si avvicinò al cattolicesimo mettendo al centro della sua filosofia la concezione dell'amore come rapporto essenziale della persona umana con il Dio-persona. Su questa centralità della persona e dell'amore è pure fondata la sociologia di S., trattata soprattutto nel volume Die Wissensformen und die Gesellschaft (1926) e rivolta a una critica serrata della civiltà moderna, accusata di aver rovesciato in modo utilitaristico e pragmatistico quei valori di corresponsabilità e solidarietà sui quali soltanto si può sviluppare una "comunità personale" autentica. Negli ultimi anni della sua vita S. lavorò alla costruzione di un'antropologia filosofica, di cui pubblicò i primi risultati nel volume Die Stellung des Menschen im Kosmos (1928) e che rimase interrotta per la sua morte. In quest'ultima fase del suo pensiero S. si allontanò dalla concezione cristiana di Dio come pura trascendenza, attribuendo anche alla divinità quella dualità e quell'opposizione tra lo spirito, come razionalità, e l'istinto, come impulso, che sono costitutive dell'uomo, e considerando la storia come sviluppo del loro conflitto in vista della piena realizzazione del divino attraverso l'uomo e nell'uomo. Tra le altre opere di S. vanno ricordate: Vom Umsturz der Werte (1915), Wesen und Formen der Sympathie (1923), Schriften zur Soziologie und Weltanschauungslehre (1923-24), Philosophische Weltanschauung (post., 1929).

mercoledì 9 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 98 Russell 1872

Bertrand Russell 1872

Bertrand Russell pensatore inglese, nato a Trelleck il 18 maggio 1872. Dopo avere studiato al Trinity College di Cambridge ed esserne divenuto Fellow nel 1905, vi fu nominato nel 1910 Lecturer; ma nel 1916, per la sua propaganda pacifistica, fu destituito dall'insegnamento, e poi anche, per qualche tempo, incarcerato. Dal 1927 è direttore di una scuola privata. Ingegno di grande fertilità e facilità letteraria, non soltanto nel campo strettamente speculativo, ma anche in quello sociale e politico, il R. è oggi il rappresentante più caratteristico e più universalmente noto del pensiero inglese contemporaneo. Nella copiosissima serie dei suoi scritti (largamente tradotti in molte lingue) sono principalmente da ricordare: A critical Exposition of the Philosophy of Leibniz (Cambridge 1900); The Principles of Mathematics (ivi 1903); Principia Mathematica (voll. 3, in collaborazione con A. N. Whitehead, ivi 1910-13; 2ª ed., 1925-27); Our Knowledge of the External World (Londra 1914); Justice in War-Time (Chicago e Londra 1916); Roads to Freedom: Socialism, Anarchism and Syndicalism (Londra 1918); Introduction to Mathematical Philosophi (ivi 1918); The Practice and Theory of Bolshevism (ivi 1920); Analysis of Mind (ivi 1921); The A. B. C. of Atoms (ivi 1923); Icarus, or the Future of Science (ivi 1924); What I believe (ivi 1925); The A. B. C. of Relativity (ivi 1925); Analysis of Matter (ivi 1927); Sceptical Essays (ivi 1928); Marriage and Morals (ivi 1929); Education and the Social Order (ivi 1932); Freedom and organisation, 1814-1914 (ivi 1934). Moltissimi articoli sono stati inseriti in Mind e in altre riviste filosofiche. Un'esposizione sommaria della propria filosofia il R. ha dato, col titolo di Logical Atomism, nella silloge Contemporary British Philosophy, I (Londra 1924). Nel primo periodo della sua evoluzione, che approssimativamente si estende fino alla guerra mondiale, il pensiero del R. è volto soprattutto ai principî della matematica e conclude con l'identità matematica-logica e con l'enunciazione della celebre antinomia. Dalla sua collaborazione col A. N. Whitehead nascono i Principia Mathematica, opera monumentale, in cui si ricercano i fondamenti della logica e della teoria degli aggregati mediante l'uso di un'ideografia la quale deriva in buona parte da quella di G. Peano con l'aggiunta di nuovi simboli solo in parte necessarî: ne è rimasta classica principalmente l'enunciazione dei postulati della logica delle proposizioni e la teoria dei tipi. Nella fase ulteriore l'interesse del R. si estende anche ai singoli problemi concreti della filosofia: ma l'intrinseco logicismo e matematismo della sua mentalità mostra qui chiaramente il suo difetto, perché ciò che più interessa nei molti libri di questo periodo è quello che non discende dal R. filosofo-matematico, ma dal R. giornalista e politico e uomo di generale cultura e vivacità mentale. Dal punto di vista tecnicamente filosofico, il R. ritorna in questa età alla tradizione dell'empirismo inglese, e tende (sotto il prevalente influsso di G. Berkeley e di D. Hume, ma non senza ricordo del già tanto amato G. W. Leibniz) a una concezione della realtà come entità superiore all'antitesi materia-spirito: concezione che si avvicina perciò a quella del cosiddetto "monismo neutro", difesa in America, p. es., da J. Dewey e da W. James.

martedì 8 aprile 2025

Corso di storia della filosofia: 84 Croce 1866

Benedetto Croce 1866


Filosofo e storico (Pescasseroli, 25 febbraio 1866 - Napoli, 20 novembre 1952). Studiò a Napoli, che divenne presto la sua dimora abituale. Scampato dal terremoto di Casamicciola (1883) in cui perdette i genitori, fu accolto a Roma in casa dello zio Silvio Spaventa, e vi rimase sino al 1886; ivi intraprese gli studî di giurisprudenza che non continuò, preferendo dedicarsi ai corsi universitarî di etica di Antonio Labriola. Tornato a Napoli, si diede a indagini erudite, ma presto l'erudizione - che pure coltivò poi sempre con geniale dottrina - gli si palesò insoddisfacente, e sentì il bisogno, tipico/">tipico in lui, di trasferire i suoi interessi mentali su un piano di riflessione critica. Primo segno d'una revisione radicale in senso filosofico del suo atteggiamento è la memoria su La storia ridotta sotto il concetto generale dell'arte (1893). Ha inizio così una fervida opera da cui la cultura italiana uscì rinnovata, opera in cui il C. ebbe lungamente compagno Giovanni Gentile, finché ragioni speculative prima e poi politiche non ruppero l'accordo dei due filosofi, e che ha come documento, oltre che le opere dell'uno e dell'altro, le annate de La Critica, fondata nel 1903, la quale rappresentò l'insigne organo del rinnovamento. Senatore dal 1910, ministro dell'Istruzione con Giolitti (da lui sempre ammirato) nel 1920-21, assunse nel 1925, dopo che il fascismo si fu dichiarato nella sua essenza totalitaria, deciso atteggiamento di opposizione, redigendo il Manifesto degli intellettuali antifascisti, i quali guardarono poi sempre a lui come a un esempio. Caduto il fascismo, tornò per breve tempo alla vita politica attiva, come ministro senza portafoglio nel gabinetto Badoglio (aprile-giugno 1944) al quale parteciparono i sei partiti antifascisti del CLN, e nel primo gabinetto Bonomi (costituito il 18 giugno, ma il C. si dimise il 27 luglio); tenne sino al 1947 la presidenza effettiva del Partito liberale e sino al 1948 quella onoraria, fu consultore, deputato alla Costituente e dal 1948 senatore di diritto. Nel 1947 fu nominato socio onorario dell'Accademia dei Lincei, della quale era stato in passato (1923-35, 1945) socio nazionale; nello stesso anno fondò a Napoli l'Istituto italiano per gli studi storici, a disposizione del quale aveva posto la sua biblioteca, forse la più importante biblioteca privata d'Italia. Cardine fondamentale del sistema crociano è il nesso o dialettica dei "distinti", come integrazione della hegeliana dialettica degli "opposti". Con esso il C. intese rivendicare la distinzione e autonomia delle forme dello spirito. Carattere peculiare dell'attività del C. è il costante parallelismo tra la sua opera di filosofo e quella di indagatore di specifici problemi storici, letterarî, politici, ecc.: la sua filosofia, da lui appunto concepita come "metodologia della storia", s'invera assiduamente nel concreto. ▭ Il giovane C. parte nella sua battaglia contro il positivismo dalle posizioni spiritualistiche del De Sanctis e dallo storicismo del Vico, e "storicismo assoluto" è appunto la definizione ultima, da lui stesso offerta, del suo pensiero. Insufficiente, sin dall'inizio, gli apparve il positivismo a chiarire le ragioni della poesia e della storia, ambedue per il C. conoscenza dell'individuale e pertanto non riducibili a classi di fenomeni naturalisticamente intese, e non spiegabili meccanicisticamente. La storiografia si distingue, senza negarla, dalla scienza, essa - affermò il C. all'inizio - può esser ridotta al concetto generale dell'arte, ma l'ulteriore sviluppo della sua indagine è volto a distinguere tra arte e storia: la prima è una forma di conoscenza che si distingue dalla storica e dalla scientifica, in quanto è "intuizione", indipendente dalla conoscenza razionale, dall'utilità e dalla morale, e s'identifica con la sua espressione. Ma certamente l'estetica crociana presenta anche, in nuce, una teoria dello spirito, in cui, accanto all'attività teoretica, è formulata una teoria dell'attività pratica. Il Croce aveva maturato questa parte del suo pensiero attraverso le suggestioni che prima dell'elaborazione dei suoi pensieri sull'arte gli erano venute dallo studio della filosofia del Marx e dall'amicizia con il Labriola. Già da questo il materialismo di Marx veniva opposto, come metodo e teoria storiografica, al filologismo indifferente e sterile. Il C. chiarisce l'essenza di questa nuova problematica del materialismo marxista nella necessità di determinare il posto che nella vita dello spirito spetta all'attività economica. E mentre il marxismo aveva concepito la realtà economica come condizione o struttura, C. fa dell'economicità una delle forme della spiritualità, ponendo, accanto alle categorie tradizionali del Bello (estetica), del Buono (morale), del Vero (logica), la quarta categoria dell'Utile (economica). Ma con questa accettazione del momento economico, che è anche limitazione di esso, C. si sottrae alla suggestione del marxismo, che gli appare ormai errore filosofico; esso però permette al C. di riprendere e sistemare la teoria romantica della politica come pura economicità non tiranneggiata da esigenze etiche, e di ricongiungersi, ancora più indietro, al Machiaveili. ▭ Per dare una compiuta teoria del giudizio estetico e di quello logico, il C. doveva peraltro indagare la sfera specifica nella quale lo spirito, fattosi autocosciente, elabora i predicati del giudizio. Questo compito è affrontato nella Logica, e il problema è avviato a soluzione con la distinzione, che il C. introduce in questa opera, tra concetti puri e pseudoconcetti, cioè tra ragione e intelletto. L'intelletto astratto viene rigettato fuori dei confini dell'attività conoscitiva, in quelli dell'attività pratica, conformemente alle indicazioni e alle conclusioni cui per altre vie e con altri intenti era giunta la gnoseologia e metodologia delle scienze, partendo dal seno stesso del positivismo. Liberatosi dagli impacci degli pseudoconcetti, il C. elabora la teoria del concetto puro, che vive nel giudizio. E infine, con l'identificazione di giudizio esistenziale, o individuale, e giudizio definitorio, compie il passo decisivo, rivelando l'insopprimibile storicità di ogni giudizio, che è il coronamento dell'edificio filosofico di C. e il delicato punto in cui storia e filosofia operano una reciproca integrazione. Tuttavia, una simile ampia sistemazione non sarebbe del tutto intelligibile se non se ne chiarisse ancora un presupposto, che è quello dell'incontro diretto del pensiero del C. con quello di Hegel (Ciò che è vivo e ciò che è morto della filosofia di Hegel, 1906), del quale, attraverso lo studio del marxismo e "mercé l'amicizia e la collaborazione col Gentile", aveva già avuto a risentire. Al C. si era venuta rivelando una visione della realtà la quale, per la concezione dei distinti, si ordina e circolarmente trapassa in forme diverse e ritornanti, in una guisa che può apparire del tutto pacifica. Il C. accordò tale concezione con la dialettica propria dell'hegelismo, la quale sottolinea il momento della lotta e del contrasto tra gli elementi che danno struttura alla realtà, mostrando invece che il momento negativo in una forma distinta non è altro che la positività di un altro distinto che al primo si surroga, per cui alla realtà non viene a mancare l'anelito dialettico e la spinta al divenire, ma non manca nemmeno la capacità di presentarsi positiva ed equilibrata in ogni suo momento. In tal modo una teoria della storiografia era orma i compiuta. Essa imponeva al filosofo-storico di adeguare il suo pensiero e di cogliere i suoi problemi in una realtà che continuamente si rinnova.
Gli eventi pubblici seguiti alla prima guerra mondiale lo indussero poi a trasformare i suoi concetti interpretativi della realtà in precetti e norme di vita: nacque così il suo liberalismo; come prima aveva rivendicato l'autonomia della politica, così ora, di fronte a violente ideologie politiche che danno sanzione etica allo stato, è indotto a rivendicare, nel quadro della distinzione, l'autonomia e l'alterità della vita morale rispetto all'attività politica. Il ripensamento e la colorazione etica dei concetti fondamentali del sistema diventano nota caratteristica di questa seconda fase della vita del filosofo, e da essa sgorga gran parte della produzione del C. storico, che è tutta rivolta alla contemplazione e all'esaltazione delle forze morali che operano nella storia. C. teorizza questa esperienza nella distinzione di storiografia puramente economica e di storiografia etico-politica, nell'idea della storia come storia della libertà e della libertà come ultima religione dell'umanità.
La metodologia degli studî letterarî e storici è uscita profondamente rinnovata dall'insegnamento del Croce. Lo studio della poesia, come d'ogni altra arte, deve tendere - egli insegnò - all'individuazione della personalità dell'artista; tutto ciò che è esterno a lui può concorrere a spiegarlo ma non lo condiziona ai fini dell'accertamento della sua poesia; è assolutamente inefficiente, anzi dannoso, un raggruppamento storico degli artisti; storia dell'arte non è possibile fare, e tanto meno storia di singoli generi letterarî che sono astrazioni di critici, non realtà. Le ricerche care al vecchio "metodo storico" sono bensì legittime, ma solo al servizio della ricostruzione storica d'una determinata cultura o civiltà, non mai per la vera comprensione d'un poeta o artista. La storia, a sua volta, è sempre contemporanea, nel senso che essa è legata al presente, nella persona e nell'ambiente dello storico, che muove sempre nell'opera sua da proprî interessi attuali. La storiografia non è cronaca grezza di avvenimenti, ma ricostruzione e giudizio dei fatti, sintesi di intuizione e concetto; è sempre "etico-politica", cioè storia della vita morale e civile dell'uomo. Il linguaggio è creazione individuale, e quindi atto spirituale, espressione di fantasia e non di logica, è dunque sinonimo di poesia; la linguistica, com'è tradizionalmente intesa, cioè come studio di suoni, di forme, di significati, ecc., ha la sua legittimità, ma come studio di fatti sociali. E si tacciono qui gli insegnamenti del C. in molti altri campi di studio, anche lontani da quelli da lui coltivati (per es., nella filologia testuale); ma non può essere taciuto che nella storia della prosa italiana moderna, la prosa del C., così limpida e precisa, senza sbavature di sorta, sostenuta ma senza pedanterie e leziosaggini, rappresenta un momento di notevole importanza. Pertanto il C., anche se non gli mancarono critici e avversarî talvolta violenti, appare come la figura di maggior rilievo della vita culturale italiana della prima metà del Novecento.

Tra le opere di critica e storia letterarie: Saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1911); La letteratura della nuova Italia (6 voll., 1914-40); Goethe (1919); AriostoShakespeare e Corneille (1920); La poesia di Dante (1921); Poesia e non poesia (1923); Storia dell'età barocca in Italia (1929); Nuovi saggi sulla letteratura italiana del Seicento (1931); Poesia popolare e poesia d'arte (1933); Nuovi saggi sul Goethe (1934); Poesia antica e moderna (1941); Poeti e scrittori del pieno e tardo Rinascimento (3 voll., 1945-52); La letteratura italiana del Settecento (1949); Letture di poeti e riflessioni sulla teoria e la critica della poesia (1950). Tra le sue opere filosofiche, fondamentale è la Filosofia dello spirito in tre volumi (Estetica come scienza della espressione e linguistica generale, 1902; Logica come scienza del concetto puro, 1909; Filosofia della pratica, 1909), a cui poi si aggiunse la Teoria e storia della storiografia, 1917 (uscita però già nel 1915 in lingua tedesca a Tubinga: Zur Theorie und Geschichte der Historiographie). Altri scritti filosofici: Materialismo storico ed economia marxista (1900), Problemi di estetica (1910); La filosofia di GBVico (1911); Cultura e vita morale (1914); Nuovi saggi di estetica (1920), in cui è compreso il Breviario di estetica (1913); Etica e politica (1931); Ultimi saggi (1935); La poesia (1936); La storia come pensiero e come azione (1939); Il carattere della filosofia moderna (1941); Discorsi di varia filosofia (2 voll., 1945); Filosofia e storiografia (1949); Storiografia e idealità morale (1950); Indagini su Hegel e schiarimenti filosofici (1952). Tra gli scritti di storia etico-politica: La rivoluzione napoletana del 1799 (1912); Storia del Regno di Napoli (1925); Storia d'Italia dal 1871 al 1915 (1928); Storia d'Europa nel secolo decimonono (1932). Scritti varî: Contributo alla critica di me stesso (1918); Conversazioni critiche (5 voll., 1918-1939); Storia della storiografia italiana nel secolo XIX (2 voll., 1921). Nel 1951 fu pubblicata nei "classici Ricciardi", a cura dello stesso C., un'antologia delle sue opere (Filosofiapoesiastoria), con una compiuta cronologia. 

Filosofia da due soldi: Quando la filosofia fa male: il rischio di pensare troppo

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